giovedì 6 settembre 2012

ALCOA, SULLA TORRE ASPETTANDO L’ULTIMA CHANCE (SVIZZERA)


ATTESA PER KLESH E GLENCORE

Portovesme (Carbonia-Iglesias)
Quella scritta “disposti a tutto” non è una metafora. I tre operai dell’Alcoa, arroccati da martedì sul silos a settanta metri d’altezza nel piazzale dello stabilimento di Portovesme, non mettono limiti alla loro protesta. La tensione si respira anche quando arriva la notizia
sull’interessamento della Glencore. Infatti il ministero in serata spegne le speranze: dalla multinazionale svizzera nessun nuovo contatto, la lettera ricevuta è quella di Portovesme srl e le risposte del dicastero non cambiano rispetto alle trattative pre estive. L’unico interesse esterno viene identificato nella società di commodities Klesch, con sede a Ginevra. Ma non c’è nulla di definitivo e i nodi da sciogliere restano tutti: tariffe elettriche, infrastrutture , efficientamento dell’impianto. Glencore non sarebbe l’unico soggetto interessato: dal Ministero filtra la possibilità di un altro pretendente, ovvero la società di commodities Klesch, con sede a Ginevra. Si vedrà nelle prossime ore se davvero si può parlare di un futuro per Alcoa.

L’alternativa alla soluzione positiva della vertenza (che si trascina dal 2009) è il dramma sociale di un territorio intero. Alcoa significa un migliaio di buste paga, tra lavoratori diretti e appalti, cui si aggiunge l’indotto. “Se chiude Alcoa qui scoppia l’anarchia e qualcuno dovrà prendersi le responsabilità”, dice Stefano Ansaldi, sposato e padre di due figli. Parla attraverso la rete che delimita il perimetro dello stabilimento dove i giornalisti, ma anche i familiari e gli stessi lavoratori che non sono in turno, non possono entrare in quello che sembra una fortezza sorvegliata a vista dai vigilantes. Così vuole l’azienda, la multinazionale americana che sta continuando l’operazione di spegnimento dell’impianto. E con quello che Rino Barca (Cisl metalmeccanici) definisce “il dissanguamento della fabbrica perché il Governo si è finora rivelato sordo”, le speranze dei lavoratori diventano via via più flebili. Ma non la loro determinazione. “Siamo molto arrabbiati – avverte Stefano Ansaldi – il 10, quando ci sarà il vertice a Roma, ci aspettiamo risposte concrete per il futuro dello stabilimento. E non vogliamo assistenza: questo territorio è già pieno di cassaintegrati e pensionati”. Anche Christian Ochs ha moglie e due figli che respirano il dramma: “A casa ci chiediamo quotidianamente ‘cosa faremo?’ L’alternativa non c’è e poi è insensato pensare di chiudere uno stabilimento che copre il 10 per cento del fabbisogno nazionale di alluminio, peraltro di prima qualità”.

“Ci sentiamo a terra, ma la voglia di combattere non ce la toglieranno – incalza Alessio Mannu, anche lui padre di due bambine – la prospettiva è il nulla”. Ruben Deidda vive con i genitori, ma il suo stato d’animo non è meno provato dei colleghi padri di famiglia. “Ti ritrovi a 35 anni con la prospettiva della cassa integrazione e nessuna alternativa”. Intanto, in cima al silos (un deposito d’acqua usata per il raffreddamento della colata in fonderia) qualcuno fa salire un secchio che contiene cibo e le medicine salvavita per uno dei tre operai, affetto da cardiopatia. L’altra sera, dopo le dichiarazioni del ministro Corrado Passera che non lasciava speranze per la fabbrica, si è sentito male. Ma lui non si è fatto convincere a interrompere la protesta; né gli altri colleghi si sono impressionati per la pioggia e il vento che li hanno accompagnati nella prima notte. Prima, ma non ultima. A dar loro coraggio anche i battaglieri delegati della Rsu Carbosulcis, quelli che per una settimana hanno occupato le gallerie a meno 373 metri. Perché nel Sulcis la protesta non conosce mezze misure: o barricati nelle viscere della terra o appesi in cima ad un silos.

Cinzia Simbula - 06 settembre 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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