Sta per arrivare in libreria
“Democrazia! - Libertà privata e libertà in rivolta” di
Paolo Flores d’Arcais, concepito come un prontuario delle antinomie (
Democrazia e legalità, Democrazia e verità, Democrazia e ateismo, Democrazia e illuminismo di massa, Democrazia e denaro,
Democrazia e uguaglianza, Democrazia e morale, Democrazia privata, Democrazia e rivolta). Anticipiamo un passo del capitolo dedicato all'eguaglianza.
Tutti conoscono il motteggio infantile che recita «se mia nonna avesse un trolley sarebbe un tram». Troppi liberisti scambiano questo scherzo per un ragionamento: «se tua nonna avesse un trolley sarebbe libera di essere un tram» ha infatti l’identica struttura logica di «se tua nonna avesse i miliardi adeguati sarebbe libera di fondare la Fiat». Ma tua nonna ha il trolley? Se non lo ha, quella libertà è una irridente boutade, come sa perfettamente il bambino che la pronuncia e che scopre così precocemente l’ipotetica del terzo tipo o dell’irrealtà. Nessuno di noi è libero di fondare la Fiat. E portare in contrario le leggendarie imprese di chi «si è fatto da sé» mantiene il discorso nel girone dell’apologia anziché della logica, poiché in ogni ramo imprenditoriale l’Henry Ford o lo Steve Jobs di turno rappresenta il momento magico irripetibile di un «nuovo inizio», cui seguirà la normalità strutturale che vedrà invece l’imprescindibilità del trolley miliardario. (…)
Di quali risorse ho bisogno per essere libero di fondare un giornale, una radio, una tv? Che libertà ho di praticare il «rischio di impresa» se non possiedo il necessario conquibus da arrischiare, o l’equivalente credito della banca? È dunque perfettamente liberista, ma prende sul serio la logica, l’articolo 3 della nostra Costituzione, che al secondo capoverso recita:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economica e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Che proprio tale articolo suoni affetto da socialismo al delicato udito di qualche liberale, ci dice solo come il privilegio di classe sia pronto a spingersi fino all’odio per la logica. (…)
La diseguaglianza, insomma, non va da sé, deve essere giustificata. E il liberale (non ancora ingaglioffito a liberista) può giustificarla solo qualora l’eguaglianza impedisca la «critica dell’esistente». Benedetto Croce – il maestro di libertà che per timore dei «rossi» preferì avallare il fascismo, dunque un liberale moderatissimo che «diede per viltade il grande assenso» – riconoscerà che il liberalismo non ha «legame di piena solidarietà con il capitalismo o con il liberismo economico o sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di ordinamento della proprietà e di produzione della ricchezza, con il solo limite … che nessuno [di essi] … impedisca la critica dell’esistente». La libertà liberale è perfettamente compatibile con politiche di limitazione anche radicale del diritto di proprietà (a cominciare dall’azzeramento della trasmissibilità ereditaria delle ricchezze), purché non incidano sulla capacità critica complessiva dei cittadini nei confronti dei poteri costituiti. Un liberale che non abbia in uggia la logica concluderà perciò con Rousseau:
«È proprio perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l’eguaglianza, che la forza della legislazione deve sempre tendere a mantenerla». Invece, sempre più spesso, il cittadino è costretto ad ascoltare inverosimili analogie tra «mercato politico» e «mercato economico» (…)
Metafore tipo
«azienda Italia» possono perciò affiorare alla mente solo laddove ogni sinapsi sia satura di pulsione totalitaria. Del resto, il liberale Tocqueville già metteva in guardia (…):
«È facile scorgere nei ricchi un grande disgusto per le istituzioni democratiche del loro Paese». (…) Se mettiamo in fila quanto fin qui acquisito, siamo costretti a concludere che
la democrazia è in conflitto permanente col liberismo, poiché quest’ultimo, lasciato al suo istinto, è portato inguaribilmente all’aggressione contro ogni presupposto e conseguenza dell’eguale sovranità e dell’autonomia del ciascuno. Senza l’azione inesausta della politica per vincolare il capitale agli imperativi dell’eguale libertà civica,
il liberismo conclude nella soppressione della democrazia. A questo punto scatta puntuale la geremiade d’ordinanza: ma con questi discorsi si finisce nel comunismo! Sì e no (soprattutto no). «Pretendere di arrivare a una perfetta eguaglianza nella distribuzione dei poteri di governo mi pare tanto assurdo … quanto è pernicioso in pratica il comunismo», sosteneva in effetti il baronetto George Cornewall Lewis, cancelliere dello scacchiere di Lord Palmerston.
«Una democrazia non truccata … è già il comunismo», sintetizza giustamente Luciano Canfora citandolo. Sia però chiaro che l’approssimazione asintotica alle eguali chance di partenza non può avere nulla a che fare con gli esperimenti di socialismo reale che troppi popoli hanno dovuto subire. La pianificazione burocratica dei regimi dell’est (…) si colloca esattamente agli antipodi dell’eguaglianza democratica. (…) La totalitaria abrogazione di ogni libertà politica è infatti già una forma – e micidiale – di diseguaglianza materiale, sociale. Che, oltretutto, fa da incubatrice alle altre. I gerarchi di partito, ciascuno nell’asimmetrica proporzione del rispettivo potere, sono infatti gli effettivi padroni del sistema produttivo, banche, industrie, terre. Tanto è vero che saranno proprio loro a trasformarsi in «legittimi» proprietari, quando il crollo dell’Urss e delle democrazie popolari (iterazione per occultare negazione!) suonerà l’inevitabile fanfara delle privatizzazioni e trasformerà i più lesti degli apparatchiki in «oligarchi» delle ricchezze economiche.
Paolo Flores d’Arcais - 16 maggio 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
.
0 commenti:
Posta un commento