giovedì 23 agosto 2012

Ilva, corruzione a tre strati (di Marco Vitale)


Dunque, corruzione. Finalmente e con molta fatica, la parola chiave per comprendere il dramma di Taranto, si è fatta strada. Dopo aver ricordato i numerosi impianti siderurgici integrati, che funzionano perfettamente in tutta Europa, senza minacciare la salute dei cittadini, un lettore del Sole 24 Ore si pone la domanda
fondamentale: “Soltanto in Italia è impossibile produrre acciaio senza inquinare oltre i limiti consentiti dalle normative europee e a salvaguardia della vita umana?”. E io aggiungo: soltanto in Italia è possibile tentare di far credere a milioni di persone che l’alternativa sia ancora: o si muore di malattia di lavoro o si muore di fame, come ai tempi della prima industrializzazione o a quella dei carusi nelle zolfatare siciliane, e questo nel cuore d’Europa ed all’alba del terzo millennio? E perché ciò avviene se tecnologicamente la siderurgia italiana è da lungo tempo tra le più avanzate?

Non si capisce niente di quello che sta succedendo a Taranto, se non si introduce nell’equazione, non come capitolo quasi accessorio, ma come capitolo centrale, la parola corruzione, con tutti gli annessi e connessi quali: connivenza, complicità, copertura, sudditanza psicologica, servilismo. Allo stesso modo non si capisce niente dell’Italia senza fare analoga operazione per tanti altri temi importanti che ci affliggono. Solo la corruzione spiega come si sia potuto arrivare a questo punto, che, nell’anno di grazia 2012, per il maggior impianto siderurgico italiano, che dovrebbe essere quindi al centro dell’attenzione ed essere un fiore all’occhiello dell’industria italiana, si pongono come centrali drammi, alternative, conflitti sociali, sacrifici personali, propri di una industria e di una imprenditoria primitiva. Chi si è cimentato seriamente, o come tecnico o come amministratore, sui temi della sicurezza nel lavoro sa bene che, oggi, questa non è che l’altra medaglia della qualità e della competitività. Nei giorninostrinonsifaqualitàenon si è competitivi se non si opera con una organizzazione produttiva e del lavoro capaci di assicurare, insieme ed inscindibilmente, sicurezza del lavoro, qualità, competitività, rispetto dell’ambiente e del territorio. Fortunatamente in Italia molte imprese si muovono secondo questa logica, anche nel settore siderurgico. Per cui se fossi ministro dello Sviluppo o alto dirigente sindacale, incomincerei, sin d’ora, a preoccuparmi, al di là dell’emergenza ambientale, della tenuta a lungo termine, sottoilprofilodellacompetitività, dell’impianto di Taranto. Che non vada ad allungare la lunga fila dei grandi impianti del sud che, spremuti come limoni, vengono poi abbandonati sulla spiaggia. Quello che si è visto e letto in questi giorni non è per nulla tranquillizzante neppure sotto questo profilo. Vi è la corruzione di primo livello, quella delle bustarelle in contanti, nella quale gli addetti Riva hanno dimostrato tanta disinvolta competenza. Serve a comprare periti, professori universitari, funzionari dell’ambiente ministeriali e locali, sindacalisti, giornalisti etc. È quella che spiega perché chi deve vigilare non vigila, chi dovrebbe parlare non parla, chi dovrebbe dire certe cose ne dice altre, chi dovrebbe ascoltare non ascolta. È quella che spiega tanti ritardi, tanta “imprevidenza” che, in realtà, è imprevidenza voluta, programmata e comprata. Vi è poi la corruzione del piano più elevato, fatta di relazioni portanti, di do ut des, di reciproci conflitti di interessi, di reciproci favori soprattutto con uomini politici, alti burocrati, e, talora, anche con i magistrati, la stampa, le associazioni imprenditoriali. Una diffusione di metodi mafiosi come disse un paio di anni fa Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia: “Il metodo mafioso, anche quando non c’è la mafia è diventato purtroppo un metodo diffuso nella nostra società. Che è un sistema basato su un principio di amicizie strumentali, relazioni informali che lasciano poco spazio a forme democratiche, di mercato. Alla luce di rapporti amicali si prendono decisioni, si fanno affari, si intrecciano conoscenze che sono funzionali a questo sistema”.

Vi è poi la corruzione della figura dell’imprenditore, nel senso della sua decomposizione come tale e la sua sostituzione con quella dell’uomo d’affari. Il vero imprenditoreèquellocherestituisceallasocietà un valore maggiore dei fattori della produzione che consuma. L’imprenditore corrotto o decomposto è quello che consuma (e qui mettiamo anche la salute delle persone) più di quello che restituisce alla società.

Di questa corruzione dell’imprenditore e dei manager ha parlato, con molta efficacia, nel 2003 Henry Mintzberg (uno dei tre o quattro grandi studiosi americani di organizzazione aziendale indipendenti), ai tempi dello scandalo Enron: “Il problema non è Enron, Enron è solo un caso di corruzione illegale. Il vero problema è la corruzione legale. È la corruzione dei manager. Ci sono troppi manager mercenari, che gestiscono le società solo per quello che loro pensano essere il beneficio degli azionisti ad esclusione di ogni altro.

Le imprese sono istituzioni sociali. Se esse non svolgono attività utili alla comunità non hanno diritto di esistere”. Per questo dobbiamo essere molto grati alla magistratura di Taranto che, sia pure tardivamente, ha scoperchiato il vaso di Pandora, e ciò ha portato all’aperto tanti temi essenziali tra i quali quello della corruzione, nelle sue varie forme, della classe dirigente, e quello di cosa vuol dire fare impresa nel Terzo millennio. Ma il mito ci dice che dentro nel fondo del vaso di Pandora, rimane la speranza.

Marco Vitale - 23 agosto 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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