Le conseguenze del conflitto
Si rende conto il Capo dello Stato – e con lui il presidente del Consiglio e tutti i commentatori che hanno sostenuto il suo operato – di che cosa vuol dire lasciare soli o anche soltanto indebolire l’autorevolezza dei magistrati che indagano sulla trattativa fra Stato e mafia, a
Palermo? Quando questi magistrati non hanno il pieno e completo sostegno di tutto lo Stato, e dell’opinione pubblica, la loro vita è ancora più in pericolo. Lo ha spiegato nel modo più chiaro possibile Giovanni Falcone: “Si muore quando si è lasciati soli”. Queste parole si sono rivelate una tragica profezia e impongono di chiedere se era davvero così necessario sollevare un conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari di Palermo. Nel suo magistrale e coraggioso articolo su Repubblica del 17 agosto, Gustavo Zagrebelsky ha sottolineato che se la Corte Costituzionale desse torto al Capo della Stato, si aprirebbe un conflitto devastante “al limite della crisi costituzionale” fra due istituzioni fondamentali dello Stato.
Maurizio Viroli |
Ma le conseguenze del conflitto aperto dal capo dello Stato nei riguardi dei magistrati di Palermo potrebbero essere ancora più tragiche perché potrebbero coinvolgere la sicurezza dei servitori dello Stato. Una Repubblica che si rispetti deve avere quale prima preoccupazione la tutela della sicurezza dei cittadini e in particolare quella dei suoi magistrati e delle sue forze dell’ordine. Da questo principio discende che deve essere cura precipua di chi la rappresenta fare capire ai criminali di qualsiasi specie, con le parole e con gli atti, che se toccano un magistrato dovranno vedersela con tutto la forza dello Stato, unito in tutte le sue componenti, nella determinazione di punirli secondo le leggi. Orbene, dei magistrati chiamati a rispondere davanti alla Corte costituzionale del loro operato sono inevitabilmente più deboli rispetto alla mafia che combattono. E poiché sono esseri umani è tutt’altro che impossibile che alcuni di loro si sentano meno motivati a dedicare le proprie migliori energie e a rischiare la vita nella lotta alla mafia.
Non dovrebbe essere necessario, ma è meglio precisare, che quanto ho fin qui sostenuto non implica che i magistrati, per la sola ragione che combattono la mafia, possano violare i diritti dei cittadini o interferire con gli altri poteri dello Stato. Se abusano, tocca al Consiglio Superiore della Magistratura (art. 105) procedere per via disciplinare. Poiché il Consiglio non ha trovato nulla da eccepire, non si vede motivo per sollevare il conflitto di attribuzioni. E ancora meno giustificato appare l’appello del capo dello Stato ad approvare una più restrittiva legge sulle intercettazioni telefoniche per via di larghe intese parlamentari, vale a dire con il contributo di forze, quali i berlusconiani, che, come tutti sappiamo, hanno sempre dimostrato un encomiabile senso dello Stato!
Per prendere una decisione che comporta i rischi reali e gravi che ho menzionato, ci vuole una ragione molto forte, anzi un vero e proprio stato di necessità. Orbene, nel suo decreto del 16 luglio il capo dello Stato ha invocato, a sostegno della sua decisione, il dovere di impedire che si formino precedenti tali da intaccare la figura presidenziale (“lesione delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”) per lasciarla ai suoi successori così come l’ha ricevuta dai predecessori. No, non basta. L’armonia e la cooperazione fra i poteri dello Stato, il diritto dei cittadini di conoscere l’operato dei suoi rappresentanti e in primis di chi rappresenta l’unità nazionale, e soprattutto l’autorevolezza e la sicurezza dei magistrati sono , in regime repubblicano, più importanti delle incrinature, per altro opinabili, delle prerogative del presidente della Repubblica.
Maurizio Viroli - 23 agosto 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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