venerdì 31 agosto 2012

ALEXANDER STILLE “Obama pubblicherebbe le intercettazioni”


Il professore della Columbia University: “Negli Usa in casi analoghi la stampa, le tv, l’opinione pubblica e l’opportunità politica costringerebbero il Capo dello Stato a disseppellire i cadaveri” ”Al posto del presidente italiano, quello americano avrebbe Fox News alle calcagna” “Obama sarebbe costretto a pubblicare quelle bobine”

Se Obama venisse intercettato mentre parla con una persona coinvolta in indagini per vicende di mafia, avrebbe Fox News accampata nel giardino della Casa Bianca che gli
chiederebbe 24 ore al giorno di disseppellire i cadaveri”.
Anche un osservatore per nulla sdraiato sulle posizioni del Fatto come Alexander Stille – professore di Giornalismo internazionale alla Columbia University – finisce per cedere alla pratica: “In America, con tutte le ovvie differenze del caso, la questione delle intercettazioni diventerebbe immediatamente un caso politico”.
Alexander Stille
Eppure Stille, sulla questione delle telefonate tra Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, di dubbi ne nutre parecchi. E non solo di natura giuridica: “È talmente importante arrivare a fondo nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia che mi pare discutibile passare mesi a dibattere su intercettazioni che, stando agli stessi pm di Palermo, non sono rilevanti”. La sintesi estrema della sua posizione è che un dibattito sulla forma (l’immunità invocata dal Capo dello Stato o la procedura seguita dai magistrati siciliani) sia ancora troppo prematura in Italia: “Dove, nella gerarchia dei problemi, Napolitano non è certo al vertice”. Se però tentiamo un’analogia con un Paese che, pur con tutti i suoi difetti, tende a privilegiare la trasparenza, la faccenda cambia.

Dunque, professor Stille, pensa che alla fine Obama cederebbe?
Credo di sì: da una parte verrebbe costretto a farlo dall’opinione pubblica, e dall’altra peserebbe la strategia politica. Un po’ come quando ha pubblicato il suo certificato di nascita, nonostante nessuno lo obbligasse: ora sono in pochi a credere ancora che la presidenza di Obama sia il risultato del grande complotto di un kenyota islamico.
Pensa che anche a Napolitano converrebbe rendere pubblico il contenuto delle telefonate?
Ci sono due questioni. La prima è che queste intercettazioni esistono e, di conseguenza, prima o poi usciranno.
Tanto vale che le sveli il Colle, dice?
Sì, anche per evitare che continuino speculazioni sul contenuto di quei dialoghi. D’altro canto c’è una questione di principio: le scelte di questa presidenza della Repubblica ricadranno sulla prossima: in questo senso non si può ragionare solo sulla convenienza politica.
Ecco un’altra profonda differenza culturale: mentre da noi le istituzioni tendono, da sempre, ad avvolgersi in una nube di segretezza, negli Stati Uniti l’idea è che bisogna rendere conto dell’operato ai cittadini.
Non c’è dubbio. Da noi il governo vuole pubblicare tutto, rendere noti dati e documenti. La sete di trasparenza a volte diventa persino eccessiva: ricordo Bill Clinton che è stato processato per il caso Lewinsky, con la Corte Suprema convinta che il caso non avrebbe influenzato la sua presidenza. In un contesto democratico comunque questo approccio è molto positivo, basti pensare al Watergate.
Lo scandalo che fece dimettere Richard Nixon non sarebbe mai emerso se la Casa Bianca non fosse stata messa sotto intercettazione.
Vero, ma la differenza c’è: intanto Nixon si fece auto intercettare.
Perché secondo lei?
Pensava che avrebbe scritto la Storia e voleva che restassero documenti di quegli anni. Poi però se n’è dimenticato e la storia l’ha scritta in maniera diversa dal previsto.
Ancora una volta l’intenzione era quella di lasciare testimonianze, di far luce.
Sì, ma ci sono altri aspetti: quelle intercettazioni le richiese il Congresso, non i magistrati, che in America rispondono al governo.
S’immagina in Italia una magistratura controllata dal potere esecutivo?
Impossibile, si bloccherebbe ogni indagine. Detto questo l’autonomia della magistratura dovrebbe essere controbilanciata: da voi ci sono pm che, anche se non è questo il caso, inseguono la propria ombra.
Altre differenze tra Watergate e faccende italiane?
Qui esiste l’executive privilege, che garantisce la privacy del presidente Usa a meno che il contenuto del documento richiesto, che siano intercettazioni o altro, non sia centrale per l’indagine in corso.
Nel caso di Nixon la Corte Suprema votò all’unanimità contro il presidente, che consegnò i nastri.
Effettivamente a pesare, in quel caso, fu il contesto. Il furto andato male nel quartier generale democratico, da cui tutto partì, avvenne durante l’estate. Ma non successe nulla anche perché l’opinione pubblica voleva fortemente votare per Nixon. Dopo le elezioni le cose cambiarono: la gente volle risposte. Più dubbi venivano sollevati, più i cittadini pretendevano spiegazioni. Questo pesò moltissimo.
E gli italiani lo esercitano abbastanza questo contro-potere?
Dipende. L’intolleranza verso la corruzione, dopo la caduta del Muro, supportò moltissimo le indagini di Mani Pulite. Oggi c’è grande incertezza, dovuta al fatto che la gente è disorientata dalla crisi economica e vuole affidarsi a chi la sa gestire. Questo fatto credo prenda il sopravvento.
C’è però un aspetto pratico: la questione del Colle è facilmente cavalcabile da chi vuole riesumare la legge bavaglio contro le intercettazioni telefoniche.
Questo sarebbe molto grave. E si potrebbe evitare introducendo l’executive privilege per il presidente della Repubblica: una tutela in più per lui e per tutti i cittadini, contro ogni strumentalizzazione.

Beatrice Borromeo - 31 agosto 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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