domenica 10 giugno 2012

L’ora delle élite riluttanti (di Furio Colombo)

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Una nuova febbrile apatia” attraversa l'Italia. La frase bella e poetica riassume, a pagina 109, il senso del libro I riluttanti di Carlo Galli, appena pubblicato da Laterza. I riluttanti, secondo Galli, sono coloro che potrebbero dare e non danno, che
potrebbero partecipare e si astengono, che hanno gli strumenti o la conoscenza per fare e non fanno. Al momento cruciale si tirano indietro e fanno sapere che non sono disponibili. In questo modo l’autore del saggio dà un volto alla zona grigia di cui si è molto parlato e capito poco.

Il percorso di indagine parte da Machiavelli, che rimprovera i principi italiani di badare all'immagine, restando alla larga dall’attraversare la linea della responsabilità, chiama a testimone Petrarca, che vede in questa assenza una mancanza di virtù morale, ascolta Manzoni che in Adelchi denuncia “una élite votata alla ripetizione coatta della violenza”. E cita Leopardi quando constata che l'Italia ha “le classi dirigenti più ciniche di ogni altra regione”. Ecco, dunque, il pezzo mancante di un gioco che sembra consistere sempre nello scontro fra due estremismi, quello di un residuo potere e quello di una residua opposizione.


Essere riluttante è un’opzione di élite. Non esiste un operaio riluttante, ma può esserlo il suo capo-azienda quando sta bene attento a restare allineato e coperto su ciò che “le giuste fonti” fanno sapere e vogliono che si dica sul lavoro come costo e come ingombro. Il riluttante ha un suo modo accorto di astenersi: lo fa con l'adesione immediata (forte istinto e buona informazione) alla decisione “giusta”. Il riluttante non è un solitario che vaga fuori dal “quadrato” in cui sono accampate le forze che contano. Il riluttante è dentro il campo e non riuscirai a farlo uscire a nessuna condizione, tanto più ostinato nel rifiutare di fare un passo diverso dal percorso segnato, quanto più è deciso a contare senza decidere. Altrimenti, ad esempio, come avrebbero fatto le “forze politiche” presenti in Parlamento a ottenere il voto massiccio che hanno ottenuto per nominare e votare persone senza rapporto con la realtà nelle “Autorità indipendenti” delle Comunicazioni e della Privacy, che sono diventate in tal modo totalmente dipendenti, visto che persino le mogli hanno trovato posto nelle altissime posizioni in questione? Forse, con la mia interpretazione, mi sto scostando dal rigoroso saggio di Carlo Galli che ho citato e che è destinato a diventare un breviario sul ceto dirigente italiano dei nostri giorni. Forse mi sto scostando quando dico che “il riluttante” il più delle volte è un militante, e che “apatia” significa totale disinteresse per l'opinione pubblica o anche solo il buon senso e il rifiuto (riluttanza) a uscire dalle fila, ad assumersi una responsabilità personale e aperta. Tutto ciò avviene con tale continuità e costanza, ed enormità di eventi, da spingere i cittadini alla rivolta. Ma il riluttante persevera. E i partiti credono di potersi valere di una buona scorta di riluttanti (i sinonimi sono ovviamente “conformista”, “opportunista”, “carrierista”) che esibiscono come prova di compattezza. Diventa più facile, adesso, capire il furore così diffuso, fino a poco fa, fra le classi dirigenti (soprattutto dei partiti e soprattutto a sinistra) per il fenomeno detto “antiberlusconismo”, visto come una intollerabile manifestazione di estremismo. Infatti turbava soprattutto la “apatia febbrile” dei militanti (dove militante significa ordinato partecipante a strategie sconosciute decise da altri che il più delle volte sono in contatto con altri ancora, e tengono conto di fatti e pericoli e convenienze che tu e io non conosciamo). Gli antiberlusconiani, i girotondini, i popoli viola, gli autoconvocati di ogni tipo che hanno a lungo riempito le piazze italiane ancora e ancora, dal Palavobis di Milano a Piazza Navona in Roma, prima di indignarsi, erano da respingere in quanto intransigenti. Nella vita politica dei riluttanti l’intransigenza è infatti intollerabile perchè interrompe il gioco della riluttanza militante. E per questo, per farne sentire il suono anarchico e stridente, l’antiberlusconismo veniva chiamato “estremismo”. E si evocava drammaticamente il pericolo di “dire sempre no”, il che implicava la necessità di trovare consonanze e accordi, e recava i una tabella di cose da fare, inevitabilmente, “insieme”. Per esempio approvare, assieme al ministro della Gioventù, una sua legge sulla eleggibilità attiva e passiva al Senato dei giovani di 18 anni, come se fosse una cosa utile e sensata in quel quadro politico, come se non fosse la legittimazione pubblica di un ministero totalmente inutile e truffaldino, visto lo stato di abbandono dei giovani.

Ma il codice del riluttante è già scritto molto prima della sua presunta militanza. È il misterioso talismano della “moderazione” ovvero una ideale “dose giusta” che mette in guardia da pericolosi e impetuosi abbracci di impegni o ideali, in situazioni imprudenti che possano intaccare la tua reputazione di moderato, indispensabile per i possibili incarichi di domani. Per questo scrive Corrado Staiano (Corriere della Sera, 7 giugno): “Per farcela a superare i momenti gravi della vita, anche della vita di una comunità, è indispensabile la passione. È stata ben presente in alcuni momenti della Storia nazionale”. E oggi? Stajano li conosce, li vede, li sente. Passano i riluttanti.

Furio Colombo - 10 giugno 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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