domenica 10 giugno 2012

Amnesie presidenziali (di Angelo d’Orsi)

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Nel dialogo con il dissidente Adam Michnik apparso ieri su Repubblica, Giorgio Napolitano rivisita il passato del partito che fu il suo e di milioni di italiani e giudica severamente le scelte del Pci, in particolare in relazione al 1956, l’anno spartiacque, come è stato chiamato. Fu drammatico, quell’anno, per la concomitanza tra le
“rivelazioni” di Kruscev al XX Congresso del Pcus, le sommosse in Polonia, la sanguinosa repressione dei moti d’Ungheria da parte delle truppe sovietiche. In Italia, sede del maggior Partito comunista d’Occidente, i contraccolpi provocarono lacerazioni interne al partito, rotture a sinistra, con il Psi di Nenni e la fine dell’idillio tra intellettuali e Pci che, a partire dalla pubblicazione delle opere di Gramsci era stato intenso, avviando la cosiddetta egemonia culturale della sinistra.

Ma nel ’56 il Partito, pur con aspre crisi interne, rimase ancorato all’Unione Sovietica, giustificando l’invasione dell’Ungheria: fu una scelta all’insegna del realismo politico che oggi Napolitano giudica “un tragico errore”. Togliatti era uomo troppo intelligente per non accorgersi che i moti ungheresi non erano tutti fomentati dalle “potenze imperialistiche” : eppure il timore di “fare un favore all’imperialismo” era troppo forte e i tempi non gli parvero maturi per consentire al partito italiano una piena autonomia rispetto a Mosca. Certo, tutto ciò avvenne non senza contrasti interni alla Direzione del partito (si ricorda in particolare il gesto di rottura di Giuseppe Di Vittorio), e soprattutto le fibrillazioni di molti intellettuali che firmarono il famoso Manifesto dei 101, in cui si smarcavano dall’Unità che aveva salutato entusiasta l’ingresso dell’Armata Rossa a Budapest, (salvo poi, nell’arco di poche ore, sotto le pressioni dei dirigenti, ritrattare). Un illuminante scambio di lettere fra Togliatti e Giulio Einaudi (l’editore che stava pubblicando Gramsci) ci mostra il contrasto fra la posizione privata (anche Togliatti giudicava negativamente l’intervento sovietico) e quella pubblica: “Si sta con la propria parte anche quando essa sbaglia”.

Oggi Napolitano parla, a ragione, del rapporto con l’Urss come di “una prigione”; ma forse dimentica il contesto storico in cui quel rapporto fra disuguali si dispiegò: la Guerra fredda, il maccartismo negli Usa, i Comitati civici, lo strapotere democristiano e la Celere in Italia. Il presidente non indulge alle grottesche sentenze di tanti ex che non soltanto rinnegano il proprio passato, ma gettano fra le nefandezze della storia la vicenda dell’intero movimento comunista, si esprime sobriamente nella sua rivisitazione critica di quel passato. Nel ’56 egli non ebbe certo la forza o la volontà di differenziarsi dalla linea togliattiana, la quale stava in realtà cambiando proprio in relazione agli eventi di quell’anno.

Tuttavia Napolitano faceva parte del Comitato centrale e nell’VIII Congresso del Pci che chiuse l’anno, pare abbia redarguito Antonio Giolitti che era invece stato critico, vantando la democrazia interna al partito, che aveva appunto consentito posizioni come quella giolittiana. Togliatti, dal canto suo, rivendicò l’importanza del rapporto con l’Urss, ma sottolineò con forza che non c’era (più) “né Stato guida, né partito guida”. La guida “sono i nostri princìpi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano... i doveri della solidarietà internazionale”. E invitò il partito a seguire, “nella nostra marcia verso il socialismo, una via italiana”.

Fu in fondo anche grazie a quel “tragico errore” che il Pci intraprese una strada diversa, che lo condusse nelle istituzioni e, con Giorgio Napolitano, al loro vertice.

Angelo d’Orsi - 10 giugno 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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