venerdì 14 settembre 2012

Monti senza idee attacca lo Statuto dei lavoratori (di Stefano Feltri)


MONTI STRACCIA IL DIRITTO DEL LAVORO

Il premier confessa la sua linea: dare troppi diritti fa aumentare la disoccupazione. Poi rettifica: “Nessun intento polemico”

Non è solo una polemica di giornata, è una linea di politica economica, la base culturale dell’agenda Monti: “Certe disposizioni dello Statuto dei lavoratori, ispirate all’intento nobile di
difendere i lavoratori, hanno determinato insufficiente creazione di posti di lavoro”. Il presidente del Consiglio Mario Monti dice queste parole in un videomessaggio a un convegno di Scienza della Politica all’Università di Roma Tre (doveva andare, ma si preparava la contestazione e ha rinunciato).

Il riferimento è allo Statuto dei lavoratori del 1970, quella legge 300 il cui articolo 18 è la nota norma sul reintegro dei licenziati senza giusta causa (che ora, dopo la riforma Fornero, possono ricevere anche soltanto un indennizzo in denaro). L’impostazione teorica di Monti è netta, riduttivo dire di destra ma certo più attenta alle ragioni dell’impresa che a quelle dei dipendenti: più tutele si danno ai lavoratori, maggiore è il costo per l’azienda che quindi assume meno e così, nel tentativo di tutelare i più deboli, li si condanna alla disoccupazione. Da Palazzo Chigi cercano di ridimensionare la carica polemica della frase. Sul sito del governo viene pubblicato uno stralcio di un intervento di Monti al convegno “Economia, etica e scelte dell’imprenditore” del 1985 alla Bocconi (“con la partecipazione del cardinal Carlo Maria Martini”).

Evidentemente troppo occupato per elaborare un testo originale, il premier ha basato il suo intervento di ieri su quello di 27 anni fa, quando se la prendeva con l’equo canone che ha disincentivato la costruzione di nuove case aggravando la penuria di alloggi e con “l’irrigidimento dei rapporti di lavoro e l’incremento del costo complessivo del lavoro rispetto ad altri fattori di produzione, circostanze che hanno frenato la domanda di lavoro da parte delle imprese”. C’è un passaggio ancora più esplicito, “non credo che estromettere elementi di solidarietà dal mercato darebbe luogo necessariamente a un’economia disattenta alla solidarietà, preda di un capitalismo selvaggio”.

Il tempismo per questa discussione sui fondamentali dei rapporti tra capitale e lavoro non è il migliore: giusto ieri il centro studi della Confindustria ha stimato una recessione del 2,4 per cento nel 2012 e -0,3 nel 2013, la Banca centrale europea prevede una disoccupazione in aumento nel breve periodo in tutta Europa e avverte che i sacrifici compiuti finora per ridurre il deficit potrebbero rivelarsi inutili senza un completo risanamento contabile. Fermarsi a metà percorso “consentirebbe al massimo di stabilizzare il rapporto debito/Pil ai livelli attuali e non fornirebbe un margine di sicurezza adeguato in caso di andamenti macroeconomici avversi”.

Servirebbero quindi provvedimenti per ridurre il rischio di disoccupazione e tamponare gli effetti della crisi. Ma l’approccio Monti guarda al medio periodo: con la riforma Fornero ha limitato la portata dell’articolo 18, esteso a un pubblico più vasto gli ammortizzatori sociali ma ne ha ridotto la durata a poco più di un anno e ci sono limiti al ricorso ai contratti precari. Nell’approccio Monti tutto questo dovrebbe attirare investimenti stranieri, creando un ambiente più accattivante per le imprese. Invece – e forse non è affatto una coincidenza – proprio ieri la Fiat di Sergio Marchionne annuncia che non considera più vincolante il piano Fabbrica Italia presentato nell’aprile 2010 fondato proprio sulla visione economica esternata ieri da Monti, un recupero di competitività attraverso una maggiore flessibilità nell’uso del personale, una rinuncia a parte dei diritti acquisiti e un ridimensionamento del ruolo dei sindacati. Invece il mercato è stato più forte dell’ideologia: non si vende, quindi niente investimenti. A Palazzo Chigi non erano informati della mossa di Marchionne, ma è noto che i rapporti del manager con il professore non sono particolarmente stretti. Il ministro Elsa Fornero si era ripromessa di incontrare Marchionne, prossimamente, ma la decisione di Fiat di ieri per ora non l’ha spinta a cambiare le priorità dell’agenda.

Le parole di Monti “dimostrano che questo governo non ha un’idea di cosa fare per la crescita e lo sviluppo del Paese, un film già visto, il peggiore liberismo”, dice il segretario della Cgil Susanna Camusso che si sta confrontando con la declinazione pratica del pensiero montiano. Cioè la richiesta di presentare, assieme alle altre sigle sindacali, entro un mese un piano di flessibilità e sacrifici a livello aziendale per recuperare produttività (cioè per ridurre il costo del lavoro).

Ignazio Visco, che prima di diventare governatore della Banca d’Italia ha studiato molto i fattori dello sviluppo (per il Mulino ha scritto “Investire in conoscenza”), allo stesso convegno cui partecipava Monti offre un’alternativa – anche culturale – di politica economica: la produttività “non vuol dire far correre di più sul posto i lavoratori ma creare investimenti su altri fattori come la legalità, il capitale umano ed eliminare lacci e lacciuoli”. Ma, come ci ha tenuto a far sapere, sono trent’anni che Monti la pensa diversamente. E al governo c’è lui, non Visco.

Stefano Feltri - 14 settembre 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
Twitter @stefanofeltri

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