venerdì 28 settembre 2012

Caso Sallusti - Ma quale reato d’opinione? Punita la menzogna (di Bruno Tinti)


Quel pezzo costituisce un reato

Così la Cassazione ha detto che Alessandro Sallusti deve andare in prigione. Ricorso rigettato e condanna alle spese processuali. Tutta la campagna sul preteso reato di opinione non vale la carta su cui è stata scritta. Solo perché lo ha detto la Cassazione? Basterebbe.
Ma ci si può anche ragionare sopra. In Italia, il reato di opinione non esiste, nessuna legge lo prevede. Sicché non si può essere processati perché si sostiene che le leggi di B. sull’impunità erano incostituzionali e costruite solo per evitargli la galera; oppure che la legge sull’aborto è incivile, barbara, blasfema etc . Sono opinioni. C’è di più: nessuno può essere processato se sostiene che la legge barbara etc. ha per effetto quello di obbligare le persone ad abortire. È un’opinione. Così come è un’opinione sostenere che un libro non è bello, interessante, non ha stile letterario; è un’opinione perfino dire che fa schifo.

Bruno Tinti
Quando comincia la diffamazione?
Lo dice l’art. 595 del codice penale: non si deve offendere la reputazione altrui. Breve, preciso e compendioso; e assolutamente equivoco. Ecco perché sono state scritte sull’argomento tonnellate di libri e sentenze: il confine tra opinione e diffamazione è labile. Prendendo lo spunto dalla citazione per danni di Carofiglio contro un critico letterario, è certo che dire: questo libro fa schifo non giova al suo autore; però è espressione di un diritto di critica costituzionalmente garantito. Per questo motivo la frase “il libro sembra scritto da uno scribacchino” è un’opinione: si sta dicendo che questo particolare libro è poco felice, non ha ispirazione; ma si lascia aperta la possibilità che altri libri dello stesso autore sono stati o saranno belli. Ma se la frase critica è “Carofiglio è uno scribacchino” allora si tratta di diffamazione perché l’affermazione non riguarda il libro ma la sua persona. Veniamo a Sallusti. Riassumo le frasi ritenute diffamatorie: “Il giudice ordina l’aborto... decretando l’aborto coattivo... qui ci si erge a far fuori un piccolino e straziare una ragazzina...”. Ora, criticare anche aspramente la legge sull’aborto e dire che la sua applicazione conduce all’assassinio è assolutamente legittimo. Quello che non si può fare è falsificare i fatti. Perché il giudice, nessuno ne ha scritto finora e questo mi indigna non poco, non ordinò affatto l’aborto coattivo. Semplicemente applicò l’art. 12 della legge 194/78: se la donna è di età inferiore a 18 anni, per l’aborto è richiesto l’assenso di chi esercita la potestà o la tutela... Nei primi 90 giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione di queste persone; oppure se queste rifiutano l’assenso o esprimono pareri discordanti (bel problema, vero?), medico e struttura societaria fanno una relazione e il giudice decide. La frase esatta è: “Tenuto conto della volontà della donna, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli... può autorizzare l’aborto.” Non imporre, autorizzare; rendere esecutiva la volontà della donna. È del tutto evidente che, secondo la legge, la volontà di una ragazzina di 13 anni non ha molte possibilità di esprimersi liberamente; madre e padre e tutto l’ambiente che la circonda condizioneranno la sua giovane mente; e la paura di restare sola e senza aiuto farà il resto. Sicché è ovvio che la tredicenne in questione abbia espresso al giudice una decisione che difficilmente può considerarsi autonoma. D’altra parte come può essere diverso per una tredicenne? E queste cose ben avrebbero potuto essere spiegate dal giornalista e/o da Sallusti. Ma non l’hanno fatto. Hanno invece mentito: hanno detto che il giudice aveva decretato l’aborto coattivo, il che significa contro la volontà della ragazzina, comunque formatasi. Che è falso. Il giudice prese atto della sua volontà e applicò la legge. Cosa altro avrebbe dovuto fare: imporle la prosecuzione della gravidanza? Scrivere quello che è stato scritto significa dire che il giudice ha compiuto un atto illecito, impietoso, criminale, barbaro. Non si può. Scrivere questo non è un reato di opinione, è una falsità. Ecco perché è stato giusto condannare Sallusti. Quanto alla misura della pena non mi pronuncio; la pena la decide il giudice, non i cittadini.

C’è però un altro profilo pericolosissimo nella campagna a favore di Sallusti: lui non ha scritto l’articolo, non doveva essere condannato; responsabilità oggettiva, norme medievali etc. Non è vero, la responsabilità oggettiva non c’entra niente. Questo modo di ragionare era applicato nei processi per gli infortuni sul lavoro negli anni 70. Si condannava il capo squadra, il capo reparto, quello che materialmente aveva compiuto l’azione o l’omissione che erano state la causa diretta dell’infortunio. C’è voluta un’elaborazione giurisprudenziale durata anni per arrivare al concetto di posizione di garanzia, cioè alla responsabilità diretta di chi ha l’obbligo del controllo sull’attività delle persone che dipendono da lui. La stessa cosa può dirsi per i reati di falso in bilancio e di frode fiscale. Qualcuno vuole sostenere che la responsabilità è solo di chi predispone bilancio e dichiarazione dei redditi e non dell’amministratore che firma entrambi; e che, per legge è tenuto al controllo? Che cosa deve fare un direttore di un giornale? Attribuire ai giornalisti gli articoli che dovranno essere pubblicati, leggerseli e decidere se vanno bene o no. In quel “vanno bene” sta anche la verifica se per caso violino la legge. E se non è capace di fare questa verifica personalmente, sta a lui appoggiarsi a una persona competente. Dunque Sallusti è colpevole, altro che. E non di reati di opinione.

Bruno Tinti - 28 settembre 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf

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