mercoledì 30 maggio 2012

MONTI BUCA IL PALLONE

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“Fermare i campionati”. Zamparini: “Premier indegno” Abete: “Non si può fare”. A Palermo retata per il totonero

In fondo alle esperienze si trova coraggio. Superata l’afasia, la parola prende il volo. Forse è solo campagna elettorale. Si vedrà. Dopo aver riflettuto sulla discarica di Villa Adriana, Mario Monti si occupa di altra spazzatura. Rifiuti che emanano l’odore nauseante di qualcosa
coperto troppo a lungo. “Mi domando se per due o tre anni non gioverebbe una totale sospensione del calcio. Non è una mia proposta o una risoluzione del governo, ma la riflessione di una persona che era appassionata di questo sport, quando il pallone era ancora tale”.

Poi, liberato, Monti affonda. Cita il ricatto. L’omertà. Le connivenze: “È particolarmente triste e fa rabbrividire quando una disciplina che dovrebbe esprimere i valori più alti si rivela un concentrato di fattori deprecabili. In questi anni abbiamo assistito a fenomeni indegni”. Basta per segnare la tanto evocata discontinuità, veder accorrere Gianfranco Fini, travestito da pompiere: “Le parole di Monti non vanno interpretate alla lettera”, e far incazzare Gianni Rivera: “Provo dispiacere. In Monti avevo fiducia, ma ha detto frasi fuori luogo e fuori tempo. Non sono un difensore della corporazione, ma non bisogna esagerare e queste uscite non le capisco”. Se voleva essere l’ultimo disperato tentativo di stupire, Monti non ha fallito.

Turbato i sonni già agitati di un universo da sempre abituato a essere ricevuto a Palazzo Chigi o al Quirinale, in cerca di perdonismi, battute o amnistie nell’imminenza di Mondiali o Europei. Questa volta, si intuisce, andrà diversamente. Non si sospenderà nessun torneo, ma si cercherà di far pulizia con inedita durezza. In tempi brevi. Il giorno dopo è stato simile al precedente. Caos. Erano ancora negli occhi le luci blu delle volanti, gli arresti di Stefano Mauri, Omar Milanetto e delle altre comparse funzionali alla suburra da retropalco. Ancora nella testa le perquisizioni casalinghe di tanti giocatori di Serie A e il lodevole impegno dei loro legali, concentrati con facce da podio e morali in cantina, nel negare l’evidenza. E poi gli imbarazzi del lunedì nero della Nazionale a Coverciano, i balletti dialettici di Cesare Prandelli su Leonardo Bonucci (senza avviso di garanzia e ancora in gruppo) e Domenico Criscito (indagato e ormai a casa sua), l’indignazione sic di Antonio Conte per non essere stato interrogato dai magistrati prima che i poliziotti, applicando una loro precisa direttiva, cercassero in telefoni e computer conferma alle parole del pentito Filippo Carobbio (ex Siena): “L’attuale allenatore della Juve sapeva delle combine”. Il solito minuetto volto a tenere unito un giocattolo in frantumi con una Lega allo sbando e il presidente federale Giancarlo Abete che riesuma un cavallo di battaglia dialettico del Berlusconi più loquace. La demonizzazione. Dopo aver avvertito: “Condivido l’amarezza, ma quella di Monti non è la soluzione”, Abete intona la litania: “ Il calcio è nella società civile. Non è meglio, ma non è neanche peggio. No alle demonizzazioni”. Che il momento fosse grave si era capito già nella nottata di lunedì. L’interessato controcanto a reti unificate dell’azionista di maggioranza Sky (oltre 400 milioni di euro annuali erogati alle società di A e B) per voce di una preoccupata Ilaria D’Amico, era esondato in una serata monografica a tema: “Il protagonismo dei magistrati e la giustizia spettacolo”.
Tutto prevedibile. Tutto fuori sincrono. La realtà parla una lingua che i padroni del vapore non possono interpretare. Mentre i suoi colleghi, ecumenici, da Claudio Lotito, Lazio, ad Andrea Agnelli, Juve, cianciano di “assoluta estraneità delle società” o di calciatori sinceri (non sia mai che parlino davvero) utilizzando una formula empirica buona per tutte le stagioni, ma non esattamente a prova di tribunale: “Ci siamo guardati negli occhi e ho capito che il ragazzo non mentiva”.

Del salto di qualità e del rumore si incarica il domatore del circo, uno specialista, Maurizio Zamparini, padrone del Palermo. Anche se trascina in Sicilia questa non è una storia semplice. E Zampa fa quello che sa fare meglio. Urla: “L’unica cosa indegna in questo Paese è che uno come Monti osi dire quel che ha detto: ci sta massacrando, sta distruggendo l’Italia. Dovrebbe pensare prima di parlare. Prima di dire che bisogna chiudere il calcio, dovrebbe riflettere sui suoi problemi e su tutto ciò che sta facendo chiudere con i suoi provvedimenti. Monti dimostra di essere ignorante perchè allo Stato, ogni anno, le società di calcio versano 800 milioni di euro”. Purtroppo per Zamparini, ieri a Palermo ci sono stati arresti per totonero, scommesse clandestine. E nel mucchio, è apparsa una sua vecchia conoscenza: Giovanni Pecoraro, un ex dipendente di Zampa che lavorava nella doppia veste di procuratore sportivo e responsabile delle giovanili. Già messo in carcere (e scagionato) anni fa per concorso esterno in associazione mafiosa. Pecoraro è tornato dietro le sbarre, con l’agghiacciante corollario dettato dal magistrato Antonio Ingroia, a fare chiarezza: “Tutto il settore del gioco clandestino, compreso quello del calcio, è da tempo gestito da Cosa nostra. Da un libro mastro scovato a casa di Provengano abbiamo ricostruito a tappeto la rete di chi gestiva le scommesse”.

È strano che Zamparini non ricordi, perché come mise a verbale l’ex avvocato del boss Salvatore Lo Piccolo ed ex buon amico di Pecoraro, Marcello Trapani, oggi collaboratore di giustizia, mafiosi e capi tifosi a Palermo, erano soliti andare assieme allo stadio spartendosi biglietti omaggio della società. “L’incontro fu sollecitato dall’allora direttore sportivo Rino Foschi – sostenne Trapani – dopo che era stato contestato dai tifosi, per la riduzione dei biglietti omaggio”. Il quadro è questo. Era lo stesso anche ieri. Domani, forse, mancherà la cornice.

Antonio Massari e Malcom Pagani
30 maggio 2012 - Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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