domenica 20 maggio 2012

Identificazione di un anarchico (di Furio Colombo)

Si fa presto a dire anarchico. Specialmente dopo l’odioso e misterioso tentativo di strage a Brindisi, con la morte di una ragazzina. La parola, infatti, resta incerta, resta vaga, come la parola “santo”. Non funziona in gruppo, non obbedisce a una regola (se
mai la fonda) non risponde all’ambiente perché guarda altrove, non è nel suo luogo ma tenacemente lo cerca, non è nel suo tempo ma lo prepara. Non ama qualcuno ma qualcosa che sarà meglio per tutti, non odia ma tende a eliminare gli ostacoli. Per il santo l’ostacolo più grande è il suo corpo, per l’anarchico il corpo di un altro, ma con lo stesso disinteresse che il santo ha per se stesso: si flagella ma non c’è niente di sadico. Spara a qualcuno ma compie un dovere, quasi un dettaglio, dentro un impegno molto più grande. Non ha, e non può confessare (ne il santo né l’anarchico) piani precisi, potrà essere rude o gentile, ma nessuno potrà piegarlo a un progetto diverso.

S’intende che penso queste righe perché ho letto con attenzione l’articolo di Giorgio Galli, “Anarchia” (Repubblica, 17 maggio pag. 9  ) e mi sono occupato attentamente di Libertà: i miei ricordi di una tragedia di Maria Fernanda Sacco, nipote di Nicola Sacco, di Una storia quasi soltanto mia di Licia Pinelli, di Sotto un cielo stellato, Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, di Lorenzo Tibaldo.

Sono tutti libri che, noto con emozione, mi sono stati dedicati. E sono contento di avere scritto un testo introduttivo per un volume che raccoglie tutte le lettere dalla prigione di Sacco e Vanzetti, a cura di Lorenzo Tibaldo, di prossima pubblicazione. Tutto ciò mi porta per prima cosa a rivedere con voi la lettera di rivendicazione che un gruppo anarchico che c’è e non c’è (dipende da chi, di volta in volta, viene trovato) ha fatto arrivare per posta tre giorni dopo che qualcuno ha sparato con precisione professionale al dirigente Adinolfi della Ansaldo Nucleare.

Quella lettera aveva degli spunti di pretenzioso compiacimento estetico, di soddisfazione privata e personale (quasi rigirandosi nel proprio letto dopo una notte riuscita bene) che non trovi in nessun punto della pur vivace e discontinua letteratura anarchica. Fa notare Galli, nell’articolo che ho appena citato, che mai nessun anarchico è compiaciuto o “contento” di avere ucciso o ferito una persona. Ma invece è orgoglioso, al punto da andare a testa alta alla morte, quando colpisce il simbolo, un monarca, un tiranno, un potente. È vero che neppure deputati e senatori sono più quelli di una volta, è vero che siamo rassegnati al fatto che tutti possono cambiare e molto, e in peggio. Ma qui è in gioco la natura dell’identità anarchica . Felice di impegnare la pistola, pervaso dal piacere di uccidere? Vengono in mente pensieri facili e pericolosi. Per esempio che questo compiacimento sia tipicamente fascista e richieda un’ombra di superuomo, non la deliberata estraneità e ostentata lontananza dell'anarchico che, nel bene e nel male, compare e scompare e tende a non restare nell’inquadratura della storia, perché non gli appartiene. Nessuno di noi vuol commettere, o ripetere, l’errore fatto intorno alle Brigate rosse. C’è stato chi era sicuro: sono fascisti, nessuno a sinistra è assassino. Oppure la famosa storia dei compagni che sbagliano. Però qui siamo altrove. Siamo venuti a contatto con un ceppo sconosciuto dell'umanità anarchica che non dichiara affatto di essere fuori ed estranea al potere.

Appare invece così dentro il rapporto con la vittima da dichiarare il gusto di uccidere, da dedicare a quel gusto, a quel “piacere” la sua lettera di Rivendicazione. Non ci sarà stata una svista? Pinelli è stato una svista. Sacco e Vanzetti sono stati la più clamorosa svista nella storia della giustizia americana, che pure – lo sappiamo per il lavoro appassionato di coloro che si oppongono alla pena di morte – di sviste ne ha prodotte molte e clamorose.

Mettetevi nei panni di un buon romanziere che a questo punto debba prendere in mano la storia. Da un lato c’è una vittima nota solo agli esperti di un settore specialistico, situato in posizione non strategica e non utile (la sua morte o il suo ferimento) ad alcun gruppo immaginabile. Dall’altra c’è una pattuglia professionale che spara con cura per restare nei limiti della missione e appare e scompare senza lasciare traccia. Il narratore dovrà inventare una nuova specie di anarchici. Però non contate sul fatto che non saranno trovati. Pinelli è stato trovato. Non c’entrava, ma è stato trovato. Qui vorrei inserire una testimonianza che potrò completare e confermare se sarà necessario. Esattamente nel giorno e nell’ora dell’esplosione alla Banca dell’Agricoltura di Milano, mi trovavo in un ufficio di Roma, in visita professionale a un personaggio legato alla vita politica e partitica del momento. La nostra conversazione non è mai cominciata perché quasi subito un telefonata ha informato in tempo reale il mio interlocutore del tremendo evento di Milano, diciamo uno, due minuti dopo l’esplosione.

Ancora con il ricevitore in mano, il personaggio ha battuto un violento pugno sul tavolo gridando “Maledetti anarchici”. Ricordo la mia meraviglia. Ricordo di esser-mi preso la libertà di insistere (intanto il tavolo si era riempito di strisce di agenzia Ansa portate di corsa, una dopo l’altra da segretarie e assistenti): “Ma perché anarchici? Qualcuno lo ha detto?”. La visita è finita subito e non ho avuto alcuna risposta. Temo che non l’avremo neppure adesso. La questione non è più: chi ha sparato ad Adinolfi in quel modo perfetto e con quella lettera che sembra venire da altri capitoli della storia. La questione adesso (di nuovo) è: “Chi sono gli anarchici? E possiamo tollerare un simile pericolo?”.

Furio Colombo - 20 maggio 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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