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Francamente non so dove l’ho sentita, ma è una frase che mi piace: “Io non sono razzista; sei tu che sei negro.” Mi piace perché è una di quelle frasi di plastilina che se cambi solo un aggettivo, assume il senso di tutta l’ipocrisia che ci circonda.
Per esempio: io non sono omofobo; sei tu ad essere gay!
Sì perché in effetti funziona pressappoco così, il perbenismo dilagante che fa dire alle persone le peggiori cose con le migliori intenzioni, come per esempio quando le persone per spiegarti “di non avere nulla contro i gay” ti dicono: “Ho anche un amico, gay!”
A che servirebbe spiegare che non esistono motivi per “averci qualcosa contro”? A nulla, immagino, perché non si demolisce in un istante un’era intera di condizionamenti mentali. Si potrebbe provare a spiegare che l’identità sessuale di una persona non è affar nostro, non è una malattia, non è un crimine, esattamente come non potrebbero esserlo i tratti somatici di una persona, i deficit fisici, sia essa la calvizie o l’obesità. Ma a quel punto qualcuno guardandoti con gli occhi candidi ti direbbe: “Lo so, infatti io ho anche un amico gay!” E ricomincerebbe il giro.
Insomma, se fosse vero che a nessuno importa dell’identità sessuale altrui, i gay non sarebbero discriminati. E se fosse vero che abbiamo ormai raggiunto un livello accettabile di educazione civile, in fondo, non lo sarebbero nemmeno gli obesi. È che la civiltà esiste solo nelle parole che si usano per abbellire il proprio aspetto, e troppo di rado invece sono quelle capaci di mostrare agli altri quel che siamo davvero. Le parole sono come un coprente per le rughe, che se esageri o non stai attenta a metterlo, le mostra ancora di più. Come quando si firmano gli appelli contro la piaga dei “femminicidi”, e poi si applaude alla donna che ha torturato e ucciso il marito infedele: “Brava! Ha fatto bene!” Servirebbe spiegare che l’omicidio è un omicidio a prescindere dal sesso del morto?
Siamo in Italia, civile per finta, ed è peggio di un mondo che almeno ha il coraggio di ammettere tutta la sua brutalità, perché almeno in un paese brutale conosci il nemico e lotti per abbatterlo, mentre in Italia tutto è più subdolo e ipocrita.
Il paese dei giovanardi non direbbe mai che i gay son da uccidere come fanno in Iran, ma da curare e riportare alla “normalità”; poi si finge di impegnarsi per non discriminare, compiendo di fatto una discriminazione, così come si discrimina la donna imponendo ministeri per le pari opportunità – oddio, anche guidati da una zoccola – quasi come ci fosse bisogno di una legge speciale che dica che uomo e donna pari son, perché se non lo dice la legge …
Al paese dei giovanardi, e del Papa virilissimo è meglio non far sapere di essere gay, perché potrebbe sorgere un problema, per esempio, se un gay si candidasse ad essere preside di una scuola. Assai meglio un condannato per reati sessuali, è più accettabile dall’ipocrisia italiana, dato che si è tollerato persino di essere stati governati da un maniaco sessuale in odore di pedofilia, che però, almeno, non era gay e pure al problema della calvizie aveva posto rimedio.
Viva il paese di Dio, di Santa Romana Chiesa, che violenta i bambini ma detta i canoni della nostra moralità: se non siamo cattolici non possiamo peccare, dato che nessuno monderà la nostra anima, condannandoci alle fiamme eterne dell’inferno. Loro possono, ma in silenzio e che non si sappia in giro. Viva il paese della verginità con le camiciole a fiori, che ruba il danaro pubblico, che non si dimette se non si dimostra tutta la sua disonestà, che predica la morigeratezza ai convegni di Comunione e Liberazione, salvo poi versare una somma corrispondente a 11 anni di stipendio, al suo … coinquilino …
Rita Pani (APOLIDE … che anche io amici ne ho tanti, vivono le loro vite quali che siano. Qualcuno è persino felice)
28 - maggio 2012 - R-ESISTENZA-INFINITA
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