sabato 21 aprile 2012

Stampa, un secolo di servitù (di Angelo d’Orsi)

Sappiamo che la carriera di Silvio Berlusconi imprenditore dei media e poi politico rampante, ha preso il via dalla legge n. 10 del 4 febbraio 1985, la prima ad personam, che il suo amico Bettino Craxi fece approvare, nel silenzio degli uni, nella distrazione degli altri, e con l’attiva complicità di qualcun altro ancora. Quella legge sciagurata rese legale ciò che tale non era, ossia che un privato potesse disporre di un circuito tv sull’intero territorio nazionale, inaugurando, tra l’altro, un filone che avrebbe nei decenni seguenti visto protagonista indiscusso il
Cavaliere, l’uomo che cancellava le leggi ogni volta che le violava.

Fu così che ben presto il palazzinaro, ex chansonnier sulle navi da turismo, divenne Mr. Televisione, oltre che Mr. Calcio, apprestandosi a diventare Mr. Antipolitica.

Capitolo del complicato, spesso maleodorante intreccio tra ceto politico, sistema dell’informazione, imprenditoria, ora ricostruito da un libro (Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Laterza). Ne viene confermato un filo di contiguità tra i due sistemi: il potere e l’informazione, non nel senso però, come almeno in teoria, e spesso in pratica, il giornalismo statunitense ci insegna, ossia degli addetti all’informazione cani da guardia del potere, cioè alle calcagna dei potenti, pronti ad azzannarli, a rivelare le loro magagne, a mettere in piazza il loro sporchi affari, e non solo nel miserabile senso del pettegolezzo.

I giornalisti italiani, da Giolitti a Mussolini, da Craxi a Berlusconi, e oltre, sono invece, nella loro stragrande maggioranza, proni al volere dei potenti, e nel libro ne abbiamo una sia pur rapida (talora un po’ sbrigativa) carrellata. Si pensi alla mobilitazione nazionalista e colonialista nella Guerra di Libia o al patriottismo che non ammetteva dubbi davanti alla Grande guerra, a cominciare dalla campagna per spingere il paese a entrarvi: la vicenda di Benito Mussolini (coi soldi degli industriali e dei francesi) nell’autunno 1914, dall’Avanti! al Popolo d’Italia, è emblematica; come lo è il ruolo di D’Annunzio aedo di ogni guerra, profumatamente stipendiato dal Corriere della Sera, che gli apre le sue prime pagine pur di accrescere la tiratura, ma anche per sostenere la linea guerrafondaia. E poi il fascismo, che, liquidate le testate di opposizione tra il ’25 e il ’26, uniforma la stampa, e fa scendere in campo anche l’Eiar, il cinema con l’Istituto Luce, e la sua pseudoinformazione e, in un crescendo tra il drammatico e il grottesco, il MinCulPop con le sue “veline”, ossia i comunicati battuti a macchina in copie multiple, su carta velina, appunto, per essere distribuiti ai direttori dei giornali. Nelle “corrispondenze” di guerra, si toccò il fondo: le notizie dall’Etiopia o dalla Spagna, e poi dai fronti africani, orientali e russo in specie, le menzogne di guerra furono gigantesche, reiterate. Del resto il fascismo è stato definito “un regime di giornalisti”.

Oggi, si ricorda spesso, con giusto sdegno, lo scandalo professori di università che – tranne “quella sporca dozzina ” – si piegarono al regime, e dei tanti letterari che impetravano assegni e favori dal duce; ma i giornalisti? Quanti seppero tenere alta la testa, salvando il senso del loro mestiere e insieme la loro personale dignità?

Giovanni Comisso, nel 1938 si vede cambiare da Ermanno Amicucci, potentissimo direttore della Gazzetta del Popolo, una frase in una sua corrispondenza da Parigi: “La Francia ha avuto un grande prosatore, Marcel Proust”, divenne: “Un buon prosatore, Marcel Proust, ma ebreo”. Comisso ebbe il coraggio di protestare; ma non risulta abbia interrotto la collaborazione. Nel lungo dopoguerra, tra radio, Tv e carta stampata, i giornalisti furono ampiamente allineati alla Dc e agli imprenditori che pagavano giornali e partiti, mentre intorno al Pci manipoli di redattori e collaboratori “compagni” tentavano una difesa di valori alternativi, anch’essi tuttavia prigionieri, spesso, della logica del controllo politico, in una complessa dialettica che in questo libro viene però del tutto negletta. La modernizzazione delle tecnologie, la conquista di spazi sindacali, non sempre fu in grado di favorire una più ampia libertà delle penne. L’informazione onesta, non megafono dei potenti, né gravante sulle casse pubbliche, pare un’utopia, a dispetto dei ricorrenti tentativi di tradurla in atto (Il Fatto Quotidiano, va ricordato, ne è esempio rilevante), mentre avanza la Rete, nuovo spazio di libertà, su cui, non a caso, si cerca di metter le mani da parte di “Lorsignori”, come avrebbe scritto sull’Unità, il mitico Fortebraccio. Ma quanti sono i forti di braccia, per impugnare una penna libera, oggi?

Angelo d’Orsi - 21 aprile 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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