LA LETTERA DELLA DISCOLPA A REPUBBLICA. LA RETE DIBATTE SULLA SUA PENSIONE D’ORO, E ADDIO QUIRINALE
La vendetta della storia si abbatte, spietata, sulle ambizioni di Giuliano Amato. Alla soglia dei 75 anni l’ex braccio destro di Bettino Craxi vede svanire il sogno di una vita, il Quirinale, e perde la testa, scrivendo a
Repubblica una della più clamorose lettere-autogol della recente storia politica.
Titolo, surreale:
“Non faccio parte della casta”. Tutto per la furbizia da travet che nel 1997
lo spinse a dimettersi da presidente dell’Antitrust, accampando il nobile desiderio di tornare all’insegnamento, per agguantare a 59 anni e mezzo una pensione d’oro.
La sfortunata storia di Amato è esemplare del destino di una generazione di politici che, anche se particolarmente sottili, non hanno capito il cambiamento. Non quello politico, quello tecnologico. Nel 1997 Internet muoveva i primi passi in Italia, e Amato non intuì che 15 anni dopo la rete si sarebbe vendicata. Perché nel 1997 tutto restava sepolto negli archivi della burocrazia, oggi si viene a sapere tutto. E noi sappiamo così che Amato, da presidente dell’Antitrust, beneficiò di un parere del Consiglio di Stato che sancì lo status di dipendente per i membri dell’Autorità, e così fece valere lo stipendione come coadiuvante della sua pensioncina da professore. E sappiamo che appena maturate le condizioni per il colpaccio, Amato si dimise dall’Antitrust dicendo che gli avevano dato la cattedra all’Istituto Universitario Europeo di Firenze:
“I due incarichi sono incompatibili: amo molto insegnare e sono sicuro che ne trarrò molta soddisfazione”. Solo che lui una cattedra l’aveva già, a Roma, da oltre 20 anni, e grande soddisfazione non gliel’ha data neppure l’insegnamento fiorentino, perché è andato subito in pensione: 22 mila e rotti euro lordi al mese (che diventano 31 mila con il vitalizio da parlamentare), una cifra che qualunque universitario non può leggere senza infartuarsi.
Amato è fatto così. Da sempre in guerra contro i privilegi dei pensionati, a cominciare dalla prima riforma previdenziale che portò il suo nome nel 1992, ha sempre tutelato i vantaggi suoi. Un classico esempio è il parere del Consiglio di Stato che ha utilizzato per la pensione d’oro (con il vecchio sistema retributivo che agganciava l’assegno agli ultimi anni di stipendio): nel 2000 il governo D’Alema, di cui Amato faceva parte, lo ha neutralizzato (in quanto indecente) con una leggina
ad hoc, che salvaguardava naturalmente il pregresso.
Dunque la fantomatica rete non sopporterà di vedere il professor Amato al Quirinale, ed è la sua pensione a farne l’uomo simbolo della casta, che lui ha sempre servito con sottili consigli e sempre difeso dai nemici, per esempio non facendo niente quando Mario Monti ha chiesto proprio a lui, così competente, di intervenire sui costi della politica.
Amato si dispera, e scrive a
Repubblica di sentirsi
“bersagliato da una campagna, soprattutto in rete”. Solo che la rete non fa campagne, tutt’al più un passaparola cieco e spietato. La lettera pubblicata ieri mattina è già stata massacrata dal dileggio a mezzo web. Ma lui insiste, dice che il suo vitalizio parlamentare lo gira in beneficenza, non si sa bene a chi e da quando, e campa della sola pensioncina da 11.500 euro netti al mese, giusto premio perché
“mi sono fatto largo con le mie forze e con le mie qualità”, in un mondo dominato dal potere dei baroni in spregio a ogni meritocrazia. E lo dice adesso che l’Università era corrotta, lui che ha trascorso tutta la vita al potere o al servizio del potere. Migliaia di precari e discriminati perché figli di nessuno leggono le sue parole e twittano la loro rabbia. E lui continua a non capire, accecato dal dolore per il
Quirinale perduto.
Giorgio Meletti - 05 marzo 2013 -
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1 commenti:
Vabbè dai,non ha tutti i torti. Lui non fa parte della casta,lui è la casta!
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