La candidatura di Piero Grasso nel Pd ha almeno due aspetti positivi. Il primo è che forse il Pd tornerà a parlare di mafia, cosa che non fa da parecchio, e forse addirittura della trattativa Stato-mafia, cosa che non fa (se non per negarla o minimizzarla) da quando s’è scoperto che Napolitano tentò di condizionare le indagini. Il
secondo è che, come per incanto, cesseranno – almeno a sinistra – le polemiche sui magistrati che entrano in politica: quelle sono riservate ai De Magistris, agli Ingroia e agli altri pm che con le loro indagini han dato noia al Potere. Non è questo il caso di Grasso.
Per carità, qualche merito ce l’ha: 25 anni fa, da giudice a latere, firmò la sentenza del maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino; e l’anno scorso respinse le pressioni del consigliere giuridico del Quirinale e del Pg della Cassazione per avocare o trasferire o deviare le indagini sulla trattativa. Ma i suoi rapporti col Potere sono da sempre idilliaci: specie da quando subentrò a Caselli alla Procura di Palermo e subito se ne dissociò,
abbandonò le indagini su mafia e politica (Cuffaro a parte), allontanò dalla Dda i pm più impegnati su quel fronte, lasciò nel cassetto le carte sequestrate a Ciancimino sulla trattativa, rifiutò di controfirmare l’appello contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado, meritandosi gli elogi di berluscones e “riformisti” centrosinistri, infine ritirò il premio: la legge Bobbio (An), poi dichiarata incostituzionale, che di fatto lo nominava procuratore nazionale antimafia estromettendo il suo unico concorrente Caselli. Da allora, democristianamente, si barcamena. Un giorno dice: “Le stragi furono date in subappalto a Cosa Nostra per gettare l’Italia nel caos e dare la possibilità a un’entità esterna di proporsi come soluzione”, insomma “agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”. Cioè Forza Italia. Un altro, fra gli applausi dei Gasparri, propone “un premio speciale a Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia”. Una volta bacchetta Ingroia: “Un magistrato non deve far conoscere le sue preferenze politiche”. Ora fa conoscere le sue preferenze politiche. Ma difficilmente Violante gli ricorderà, come a Ingroia, che “i magistrati devono evitare di apparire schierati su un fronte, altrimenti le indagini perdono di credibilità”. Improbabile che Andrea Orlando gli rammenti, come a Ingroia, che “chi indaga sulla politica dovrebbe astenersene perché il candidarsi getta un riverbero su tutto quello che hai fatto prima”. Forse tacerà persino il garrulo Vietti, vicepresidente Udc del Csm, che una settimana fa, quando l’aspettativa elettorale la chiese Ingroia, fece lo spiritoso (“l’unica cosa che non provo è lo stupore”) e chiese ai partiti “un codice di autoregolamentazione per non candidare magistrati” (via libera invece a inquisiti e condannati, la specialità di casa sua). E chissà se il presidente dell’Anm Sabelli estenderà a Grasso il suo monito anti-Ingroia (“Va tutelata l’immagine di imparzialità della magistratura”). Strilleranno, anzi già strillano i berlusconidi, immemori di aver imbottito le loro liste e il ministero della Giustizia di magistrati: preclare figure come Mancuso, Iannini, Cirami, Caliendo, Nitto Palma, Centaro, Papa, Bobbio, Miller (e ora arriva Simonetta Matone, in quota Vespa-Iannini). Certo non protesterà il Centro montiano, che candida Stefano Dambruoso, magistrato più noto per gli allarmi sullo sbarco di al Qaeda in Italia che per i successi processuali. Anche Grasso, fino all’altroieri, era dato alla corte del Prof (“mai in un partito, piuttosto in una lista civica nazionale”), poi ha dato un’occhiata ai sondaggi. Se però, dopo le elezioni, Bersani risposasse Monti, Grasso potrebbe essere ministro della Giustizia in un governo appoggiato dall’Udc, il partito che fu di Cuffaro. Così nessuno potrà accusarlo di fare politica contro i suoi imputati. Semmai, pro.
Marco Travaglio - 28 dicembre 2012 -
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