Difficilmente il carteggio fra Giorgio Napolitano e il suo consigliere giuridico (poi scomparso) Loris D’Ambrosio, pubblicato nel libro presentato ieri alla scuola dei magistrati a Scandicci, lascerà tracce nella storia del diritto. E allora perché il capo dello Stato l’ha infilato nell’antologia dei suoi moniti sulla giustizia? Una possibile
risposta viene da alcune frasi di D’Ambrosio e soprattutto di Napolitano. La lettera di dimissioni del consigliere è del 18 giugno, quattro giorni dopo il deposito degli atti della Procura di Palermo sulle trattative Stato-mafia, comprese le sue telefonate con Mancino, indagato per falsa testimonianza. D’Ambrosio nega “pressioni o ingerenze” per “favorire il senatore Mancino o altri rappresentanti dello Stato”. Poi cita anonimamente (“qualche giornalista o politico...”) un nostro commento a suo dire “calunnioso” (intitolato “Immoral
dissuasion”) sul Fatto, cioè sull’unico giornale che gli ha dato modo di spiegare la sua condotta: D’Ambrosio è stato appena intervistato da Marco Lillo e, sul ruolo di Napolitano nell’affaire Mancino, s’è trincerato dietro il segreto imposto dal capo dello Stato. A quel punto il Fatto rivolge una serie di domande direttamente a Napolitano: per sapere se le numerose interferenze del Quirinale nelle indagini su richiesta di Mancino (interventi sul procuratore Grasso e sui Pg di Cassazione Esposito e Ciani; la lettera a Ciani per “coordinare” le indagini di Palermo e Caltanissetta già coordinate un anno prima dal Csm presieduto da Napolitano; addirittura il suggerimento a Mancino di “parlare con Martelli” per armonizzare le rispettive versioni contrastanti) fossero iniziative personali di D’Ambrosio o invece, come riferiva egli stesso a Mancino, il consigliere agisse su mandato del “Presidente” che “ha preso a cuore la questione” e “sa tutto”. Interferenze criticate non solo dal Fatto, ma anche da altri giornali come Repubblica (“D’Ambrosio sperava in un ‘coordinamento’ che di fatto sfilasse ogni potere d’indagine ai pm siciliani e ragionava sul da farsi con Mancino... Le telefonate intercettate scoprono un eccessivo attivismo al Quirinale sulla delicata inchiesta di Palermo e sfiorano più di una volta il nome di Napolitano”). L’indomani un messo del Colle ci recapita una nota del portavoce Cascella: Napolitano non intende risponderci. Intanto il Colle diffonde in fretta e furia il testo della lettera scritta due mesi prima a Ciani per raccomandare le lagnanze di Mancino: missiva rimasta incredibilmente segreta, anche al Csm, ma ormai nota grazie alle intercettazioni (D’Ambrosio la lesse in diretta e in esclusiva a Mancino). Il 19 giugno, con la lettera resa nota ieri, Napolitano respinge le dimissioni di D’Ambrosio confermandogli “affetto e stima intangibili... neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me. Le sue condotte sono state ineccepibili; e assolutamente obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi – funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo – di quanti, magistrati, giornalisti o politici, non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me”. Ora quelle parole, una volta divulgate, dventano un messaggio pubblico: il capo dello Stato ce l’ha non solo con politici e giornalisti (come D’Ambrosio), ma anche e in primis con i “magistrati” (i pm di Palermo) rei di “comportamenti perversi e calunniosi, funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo”. Il 29 ottobre il gup di Palermo dovrà dar loro ragione o torto nell’udienza preliminare sulla trattativa. Da ieri sa che, se oserà dar loro ragione, starà dalla parte di chi tentava di “colpire” D’Ambrosio “per colpire” il Presidente della Repubblica. Un modo come un altro per rasserenarlo.
Marco Travaglio - 16 ottobre 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
.
0 commenti:
Posta un commento