martedì 21 agosto 2012

TUTTI I SUCCESSI DELLA PROCURA CONTRO LA MAFIA


La “zona grigia” di Scalfari

Per colpire la procura di Palermo di oggi che indaga sulla intricata materia comunemente rubricata alla voce “trattative” si mira anche alla procura di ieri. Così l’autorevole Eugenio Scalfari, che chiude il suo polemico articolo di domenica scorsa contrapponendo ai
magistrati di oggi, “che invocano il favore popolare”, la riservatezza di Falcone e la sua cautela nella “gestione” del pentito Buscetta in tema di rapporti mafia-politica. Per quanto mi risulta la contrapposizione non è ben posta. I pentiti “storici” (non solo Buscetta, ma anche Marino Mannoia) sapevano molte cose. Già nel 1985 Buscetta aveva parlato di Andreotti al
Giancarlo Caselli
procuratore Usa Richard Martin, che lo ha poi testimoniato a Palermo sotto giuramento. Preferirono però non parlarne a Falcone, perché – queste in sostanza le parole di Buscetta – prenderebbero per pazzi lei Falcone e noi, in quanto lo stato italiano non è ancora pronto per affrontare questo livello che pure è cruciale per il potere mafioso. Dopo le stragi che trucidarono Falcone e Borsellino, quei pentiti si sentirono moralmente obbligati a saltare il fosso. I procuratori di Palermo – tra cui il sottoscritto – ne raccolsero le dichiarazioni ed entrarono nella “zona grigia” esattamente come avrebbe fatto Falcone.

Ecco finalmente, anche davanti a magistrati italiani, il nome prima impronunziabile di Andreotti, che Marino Mannoia aveva persino visto coi suoi occhi in un incontro con Stefano Bontade e soci. Cominciò allora un difficile processo, che si concluse in Cassazione (9.3.05) con l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato per aver commesso il delitto di associazione con Cosa nostra fino al 1980. Si è così introdotto un altro tema dell’articolo di Scalfari, secondo cui “le inchieste che da vent’anni si svolgono a Palermo hanno dato finora assai magri risultati”. Come a dire che se per vent’anni non si è combinato niente, figuriamoci adesso. Tesi suggestiva, che ha però il difetto di non tener conto dei fatti. Del processo Andreotti si è già detto. Potremmo aggiungere il processo Dell’Utri: un’altra sentenza della Cassazione (9.3.12, pag. 129) dichiara anche lui responsabile del delitto di associazione con Cosa nostra per averlo commesso almeno fino al 1978.

Assai magri risultati? Direi proprio tutto il contrario di una procura che ha contribuito alla sconvolgente scoperta di proficui e durevoli rapporti con la mafia di un perno della politica nazionale (Andreotti) e di un perno dell’imprenditoria che si fa poi politica (Dell’Utri, che nella sentenza citata si dice agisse come intermediario di Silvio Berlusconi). Un formidabile servizio, unico al mondo: il Paese avrebbe potuto trarne, e ancora potrebbe, spunti per avviare una seria riflessione – preliminare ad ogni altra, trattative comprese – su come e perché certe faccende, cruciali per la qualità della nostra democrazia, abbiano potuto succedere. Invece silenzio e disinformazione. Sui presunti “assai magri risultati della procura di Palermo negli ultimi vent’anni” posso offrire altre testimonianze dirette con riferimento ai quasi sette anni (1993-99) in cui sono stato capo di quell’ufficio . Con le stragi tutto sembrava perduto: il nostro Paese correva il pericolo concreto di essere ricacciato in un buco nero sempre più cupo. Invece siamo riusciti a risollevarci, anche grazie agli imponenti risultati che la procura e gli altri uffici giudiziari palermitani – col decisivo contributo delle forze dell’ordine - hanno realizzato. I dati parlano da soli. Boss mafiosi, latitanti e non, arrestati come mai, né prima né dopo, sia per numero sia per peso criminale: l’elenco completo riempirebbe qualche decina di fogli, ma i nomi di Riina, Bagarella, Aglieri, Brusca, Graviano, Ganci e Spatuzza possono valere per tutti. Il valore dei beni sequestrati ai mafiosi ammonta a 10mila miliardi di vecchie lire: una piccola finanziaria, la piattaforma di lancio (partendo praticamente da zero) degli interventi massicci che oggi rappresentano, per lo Stato, una specie di impresa che ne rimpingua le casse. Sequestrati anche arsenali su arsenali stracolmi di armi da guerra: roba da fare invidia ad un esercito regolare (nel bunker di Gambascio, usato da Brusca anche come “macelleria” personale, c’erano fra l’altro centinaia di Kalasnikov e una catasta di lanciagranate e lanciamissili). Strumenti di morte tolti alla ferocia mafiosa, così contrastando con grande efficacia la guerra della mafia contro lo Stato.

Un altro dato incontestabile riguarda la sequenza inarrestabile di “pentiti” che affollava i nostri uffici, quasi una diserzione di massa: prova che lo Stato stava facendo sul serio (secondo Falcone ci si pente solo se ci si fida dello Stato). Anche grazie agli spunti d’indagine forniti dai pentiti, processi e condanne: 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione, oltre alla precisa individuazione dei responsabili dell’esecuzione materiale della strage di Capaci (proprio con il procuratore di Palermo aveva chiesto di parlare Di Matteo, correo della strage e primo pentito a rivelarla nei dettagli, in un interrogatorio del 23 ottobre ’93, subito trasmesso ai colleghi di Caltanissetta). In sintesi, facendo il suo dovere, la procura di Palermo del dopo stragi ha contribuito alla resistenza contro la mafia costringendola in un angolo e ha consentito alla nostra democrazia di sopravvivere senza diventare un narco-stato o stato-mafia. Ragionare sui risultati delle inchieste, dunque, si può e si deve, ovviamente anche criticando se del caso: ma sempre restando nel quadro dei dati di fatto, che per Palermo sono quelli che ho cercato di esporre.

Gian Carlo Caselli - 22 agosto 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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