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Perché un terremoto del quinto-sesto grado Richter, così come un paio di giorni di pioggia, fa strage solo in Italia (oltre, si capisce, al resto del Terzo mondo)? La risposta l’ha data a sua insaputa il neopresidente di Confindustria Giorgio Squinzi, quando ha detto che i capannoni
industriali sbriciolati dalle scosse del 20 e del 29 maggio erano “costruiti a regola d’arte”. La questione, il vero spread che separa l’Italia dal mondo normale, è tutto qui: nel concetto italiota di “regola d’arte”. La nostra regola d’arte è quella che indusse la ThyssenKrupp a non ammodernare l’impianto antincendio nella fabbrica di Torino perché, di lì a un anno, l’attività sarebbe stata trasferita a Terni. Risultato: sette operai bruciati vivi. Mai la ThyssenKrupp si
sarebbe permessa di risparmiare sulla sicurezza nei suoi stabilimenti in Germania, dove le tutele dei lavoratori sono all’avanguardia nel mondo. In Italia invece si può. Perché? Perché nessuno controlla o perché il controllore è corrotto dai controllati. Oltre all’avidità dei singoli, purtroppo ineliminabile dalla natura umana, il comune denominatore di tutti gli scandali e quasi tutte le tragedie d’Italia è questo, tutt’altro che ineluttabile: niente controlli. Salvo quelli della magistratura, che però arriva necessariamente dopo: a funerali avvenuti. Dal naufragio della Costa Concordia al crollo della casa dello studente a L’Aquila, dalle varie Calciopoli ai saccheggi miliardari della sanità pugliese, siciliana e lombarda, dal crac San Raffaele ai furti con scasso dei Lusi e dei Belsito, dalle cricche delle grandi opere e della Protezione civile alle scalate bancarie, dalla spoliazione di Finmeccanica alle ruberie del caso Penati, giù giù fino alle casse svuotate di Bpm e Mps, alle piaghe ataviche dell’evasione, degli sprechi, delle mafie e della corruzione, quel che emerge è un paese allergico ai controlli. Che, se ci fossero, salverebbero tante vite e tanto denaro, pubblico e privato. Ma la nostra regola d’arte è quella di allargare ogni volta le braccia dinanzi alla “tragica fatalità” o alle “mele marce”, per dare un senso di inevitabilità a quel che evitabilissimamente accade. Mancano i controlli a monte perché tutti si affidano alle sentenze a valle. E poi, quando arrivano le sentenze a valle, non valgono neppure quelle. Formigoni, mantenuto dagli amici faccendieri Daccò e Simone che hanno scippato 70 milioni alla fondazione Maugeri, ente privato ma farcito di fondi pubblici dalla Regione di Formigoni, non si dimette perché “non sono indagato”. E perché, anche se lo fosse cambierebbe qualcosa? Qui non tolgono il disturbo né gli indagati, né i rinviati a giudizio, né i condannati. La giustizia sportiva ha definitivamente condannato e radiato Moggi dal mondo del calcio per i suoi illeciti sportivi, revocando alla sua Juventus due scudetti vinti con la frode, poi lo stesso Moggi è stato pure condannato dalla giustizia penale (a Roma in appello e a Napoli in tribunale). Eppure il presidente Andrea Agnelli seguita a elogiarlo come “grande manager” e rivendicare i due scudetti vinti col trucco. E ora difende Conte, “solo indagato”. Perché, se fosse condannato come Moggi cambierebbe qualcosa? Battista sul Corriere minimizza il calcioscommesse: “Un pugno di partite sporcate... se qualcuno imbroglia, non sono tutti imbroglioni”, “non è vero che così fan tutti”, ergo bisogna “essere severi con chi ha violato un codice penale e un codice morale, ma non dissolvere le differenze”. Bene bravo bis. Peccato che il 7 maggio, quando la Juve ha vinto il 28° scudetto, Battista abbia scritto che è il 30° (“tre stelle, meritate e vinte sul campo, cucite sulla maglia”) e chissenefrega delle sentenze (“nessuno ha mai pensato che una storia gloriosa fosse una storia criminale”), frutto di “processi sommari” perché c’entrava anche l’Inter. Dunque così fan tutti. Ricapitolando: niente controlli prima, niente sentenze dopo. È il Paese dell’Insaputa. Arrivederci al prossimo funerale.
Marco Travaglio - 31 maggio 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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